Romanzo verità su Reggio

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Forumino Malato
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Iscritto il: 11/05/2011, 18:10

Tratto dall' Espresso di questa settimana a firma di Gianfranco Turano:

http://espresso.repubblica.it/attualita ... i-1.167494

Vedi Reggio e poi muori. La Calabria tra fiction e realtà



La guerra tra i clan di 'ndrangheta. E un intreccio di poteri occulti che avvelena tutto. L'agonia di una città raccontata in 'Contrada Armacà', romanzo-verità di Gianfrancesco Turano



A Reggio Calabria la guerra non è mai finita. I due grandi conflitti armati tra cosche che hanno abbattuto novecento persone si sono trasformati in uno scontro sotterraneo, che avvelena la vita della città. Un dedalo di trame, dove tutte le consorterie oscure si intrecciano fino a diventare il potere: massoneria, servizi segreti italiani e americani, mafia, camorra, politica locale e nazionale. Sembra che neppure la ’ndrangheta, divisa tra le famiglie della città, quelle della Piana di Gioia Tauro e quelle della Locride, sappia governare questa lenta slavina che trascina ogni attività. Non bastano le sentenze della magistratura per capire quanto è profondo il male di Reggio. Così Gianfrancesco Turano ha scelto di raccontare la città dove è nato attraverso un romanzo, affidando a un coro di personaggi la descrizione di un’epopea criminale che ha dell’incredibile. In “Contrada Armacà” (Chiarelettere, 300 pagine, € 16,90) l’inviato de “l’Espresso” inventa una coppia di investigatori fuori dagli schemi
e con una narrativa efficacissima guida i lettori nelle catacombe della storia di Reggio. A partire dal discusso suicidio di una dirigente comunale, di cui si parla nell'estratto che pubblichiamo qui. Fiction? Solo nei nomi, i fatti purtroppo sono tutti veri.

UNO STRALCIO DEL LIBRO
Il fatto è per stasera alle sette, sette e mezzo. Dipende da quanta gente c’è dal parrucchiere. Il ragazzo lavora lì, lo aspettano all’uscita. Ha ventidue anni. Dimmi se si può morire così giovani. D’altra parte, è stata seguita la trafila necessaria a evitarlo. Gli hanno spiegato, prima con buona maniera, poi in malo modo. Con le mani nella faccia, come si dice. Lui niente. Ha fatto l’impossibile. Questa è una città di presuntuosi. Ti danno del tu e si danno del noi.

E la trafila è andata avanti. C’era pochissimo tempo. Da quando la dirigente del Comune si è avvelenata, tre settimane fa, il ragazzo si agitava in nome della sua bella amicizia con la signora. Diceva che politici, dirigenti e compari assortiti l’avevano abbandonata dopo essersi arricchiti grazie a lei, con i soldi di tutti: delle imprese e dei fornitori che fallivano, dei disoccupati e delle famiglie con le fogne scoppiate in casa. Un moccioso, un ’mbriscipisciatu di quella fatta viene a dare lezioni di organizzazione a chi ha cinque continenti da mandare avanti e la pace nel mondo da mantenere, a chi si fa galere e funerali per lealtà. Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere.

Il ragazzo ha creato un’emergenza, e in emergenza i protocolli di sicurezza si avviano in automatico. Non li puoi più fermare. Troppa gente rischia. Qualcuno si è rivolto a noi e prima dell’Epifania qualcun altro ha convocato i napoletani. Non è la prima volta. Nel 1976 - io ero bambino - sono stati usati gli uomini di Raffaele Cutolo per eliminare il vecchio don Mico Tripodo nella sua cella a Poggioreale: venti coltellate per cento milioni di lire, cinque milioni a coltellata. Costoso, ma ci siamo sempre trovati bene. È gente tecnicamente preparata, che non guarda in faccia a nessuno. Non è che a noi mancano le persone capaci. Preferiamo così. Qua non siamo sulla Montagna o sulla Piana che dobbiamo sempre mostrare quanto ce l’abbiamo lungo. Noi a Reggio diciamo: chi ha il comodo e non si serve, non c’è sacerdote che l’assolve.
vedi anche:
Al Sud c'è un buco nero
È il ritratto di Reggio Calabria. Dove spadroneggia la 'ndrangheta e la città sembra non accorgersene. Mentre gli intrighi politici e il caos dell'amministrazione pubblica hanno portato il bilancio al collasso

Tempo fa, quando ero libero, qualche volta abbiamo usato gli uomini dell’estrema destra. Ma non ti puoi fidare fino in fondo dei neri. Dall’epoca di Ciccio Franco e Giorgio Almirante sono troppo portati all’odio. Tra di loro, soprattutto: quelli che sono stati in galera contro quelli che non ci sono andati, quelli che non hanno fatto i soldi contro gli arricchiti con la carriera politica. Sono un poco come i siciliani, i neri. La cosa che li eccita di più è fottere l’amico.

I napoletani invece, con rispetto parlando, sono come le prostitute. Lo dico in senso buono. Tu li paghi, loro fanno e se ne vanno. Scompaiono a cinquecento chilometri di distanza. Non ci sono indagini, niente pentiti o intercettazioni, zero totale. Mentre gli sbirri raccolgono il morto, i napoletani sono già a cena a Castrovillari. Però si deve organizzare il fatto in un punto dove possono trovare facilmente le vie di fuga verso l’autostrada. Per capirsi, non li puoi mandare a fare il lavoro nelle curve di Mosorrofa, dove mi confondo pure io. Quindi l’intervento è stato fissato vicino al negozio del ragazzo, zona via De Nava. Da lì fino a Cardinale Portanova, dove si entra in autostrada, non si perde neanche Bocelli. I napoletani fanno, lasciano la moto, salgono in macchina e tante belle cose.

Al mattino un paio di uomini sono passati per il sopralluogo. La Cinquecento del ragazzo era parcheggiata di fronte al negozio di parrucchiere, in via Preti, senso di marcia a salire verso via De Nava. «Il porco è dentro» hanno avvertito gli uomini al telefono. Nessuna offesa, è un modo di dire. Quando si ammazza il maiale, bisogna portarlo sotto il coltello senza inquietudine. Unico problema, sulla macchina vedono un seggiolino per bambini. Esce fuori che il ragazzo ha già un figlio di un anno, un anno e mezzo. Di solito va all’asilo, ma il 7 gennaio è venerdì e c’è il ponte con l’Epifania fino al lunedì dopo. Rinviare non è possibile. I napoletani rimangono in città ventiquattro ore al massimo, isolati, con i cellulari di servizio che vengono consegnati all’arrivo e poi distrutti. Quando usi gente da fuori non puoi temporeggiare.

vedi anche:
Chi ha ucciso Reggio Calabria
Un buco spaventoso nei conti del Comune: forse 118, forse 170 milioni di euro. Le infiltrazioni della 'ndrangheta. Le ruberie dei politici. E i massoni. Storia di un saccheggio con pochi paragoni in Italia
Quelli non sono come «Cavaddinu», che al tempo della seconda guerra di ’ndrangheta ci ha messo quasi una settimana per eliminare il responsabile del locale di San Giovannello: voleva mangiare da solo sugli appalti per la nuova facoltà di Architettura. È rimasto appostato cinque giorni davanti al Policlinico girandosi in mano il telecomando dell’autobomba. Dice che non poteva far saltare mezza Reggio, e parlo di uno che con una mano tagliava gole mentre con l’altra mangiava calia. Una mattina, sul più bello, quando il bersaglio stava passando e lui era lì per schiacciare il bottone, ha visto sul marciapiede una mamma con la bambina e la cartella dei libri. E non ha schiacciato. Se lo è stutato il giorno dopo. Una botta memorabile. In quel caso ha fatto bene a rinviare. Meno bene, poi, quando si è venduto agli sbirri. Si è pure vantato della storia della mamma con la bambina.
I napoletani non si sarebbero creati problemi. Questa è la loro forza e questa è la loro debolezza. Se devono inseguire uno per sparargli dentro il cortile di una scuola elementare durante la ricreazione, lo fanno e l’hanno fatto. Se devono sparare a faccia scoperta sotto una telecamera, lo fanno e l’hanno fatto. Noi siamo diversi.
Certe regole le conserviamo. Non bisogna essere moderni tanto per essere. Io a venticinque anni mi zappavo l’orto a Pentimele come un paddeco, un paesano qualsiasi. E questo mi ha aumentato il rispetto da parte di quelli della Piana e di quelli della Montagna, a cominciare dal vecchio ’Ntoni Nirta, che mi disse: «Ho piacere, compare, di trovarvi in questa attività». Mi voleva mediatore per chiudere la faida di San Luca, una cosa da paddechi assoluti, con tutto il rispetto per chi ci ha lasciato la pelle. Anni di massacri per uno scherzo a carnevale.
E quella volta Nirta disse: «Io vengo dal tempo dei morti». Bisogna sempre ricordarsi questa frase. Chi dimentica la morte non vive. Il parrucchierino questa cosa non l’ha capita. Che si deve fare?
* * *

Il 7 gennaio 2011 Rosario Laganà stava finendo la giornata di lavoro. Alla riapertura dopo l’Epifania si era vista poca gente per essere un venerdì, e per il sabato c’erano ancora vuoti nell’elenco delle prenotazioni. Delle undici persone impiegate nel negozio, molte strascinavano faccende senza scopo. Se continuava la crisi avrebbe dovuto lasciare a casa qualcuno dei dipendenti. Lui stesso, l’indomani, si sarebbe concesso qualche ora di libertà, in eccezione al principio che il padrone deve essere sempre presente. Voleva dedicare la mattinata al figlio. A Natale il piccolo aveva ricevuto così tanti regali che la metà era ancora incartata. Mentre finiva con i capelli dell’assessora regionale, Rosario si organizzò il sabato. Con il bambino fino a pranzo. Un’affacciata al negozio nelle prime ore del pomeriggio, necessaria perché alle tre si era prenotata la moglie del dirigente all’Edilizia privata del Comune che doveva mettere la buona parolaper una palazzina da ristrutturare a Condera. Poi un giro con Margherita, quella dei colpi di sole, arrivata da due mesi.

All’inizio non l’aveva nemmeno guardata, una brunetta qualsiasi. Ci era andato a sbattere mentre lavoravano fianco a fianco, e allora aveva notato i suoi occhi, viola, il rossetto lilla e la fossetta sul mento. L’esame di gambe e culo aveva dato esito altrettanto positivo. Quindi, c’era tutto.

Era successo un pomeriggio ai primi di dicembre. In quel momento, Margherita stava tingendo i capelli a Oriana, la dirigente dell’ufficio Finanze e tributi, che il mese prima aveva detto: «Ora basta, Rosario, dammi del tu», lei che teneva le distanze con tutti. Rosario l’aveva confessata come un prete sulle infamità che le piovevano addosso da ogni parte, prima dai nemici, poi dai neutrali e alla fine dagli amici, dalle mogli di questo o di quello che prima la portavano in palmo di mano e ora, dopo le difficoltà, si assicuravano che non fosse prenotata agli stessi orari. Gente di merda.

Forse era il caso di andarsene in vacanza. L’aria era pesante in città. Scirocco fisso, facce storte. Si votava a maggio per il nuovo sindaco e la campagna elettorale era il solito bordello. C’era gente che voleva conto e ragione da Rosario per gli affari di Malta. Lui non intendeva tornarci, anche se la sua firma era necessaria a liberare alcune proprietà. Aveva spiegato che gli serviva tempo. Non toccava un euro perché non voleva la roba degli altri. Non avrebbe tradito la fiducia di chi aveva investito, ma voleva riflettere.

Era stata Oriana a organizzare tutto, come un allenatore mette in campo la squadra. Aveva stabilito chi si intestava che cosa e a beneficio di chi. Lo aveva fatto con i conti bancari, gli alberghi e i terreni a Malta. Voleva rifarlo in Bielorussia, dove c’era un governo amico e aperto agli investimenti. Rosario non riusciva a credere che si fosse ammazzata. Nessuno in città ci credeva. Una donna con quel carattere. Una femmina che prima arrivavano le palle e dopo un quarto d’ora lei. Cinque bicchierini di acido muriatico e neppure una lesione in bocca.

Questo si era letto sui giornali. Rosario aveva fatto l’esperimento con un bicchiere d’acqua: mandarla giù dritta, senza contatto con la lingua e con l’interno delle guance. Venti volte aveva provato. Impossibile.
Cinque bicchierini di acido muriatico, chi sa perché cinque, poche ore dopo una conferenza stampa in cui Oriana si era difesa e aveva contrattaccato. Era stata costretta a convocarla nel bar vicino al teatro Cilea, perché il sindaco facente funzione non aveva concesso la sala del Comune. Su YouTube c’era tutto il filmato, quasi un’ora. Subito dopo aveva trovato l’auto danneggiata sotto casa ed era andata a presentare denuncia.
Ma una persona che ha deciso di ammazzarsi può mai scegliere di passare gli ultimi momenti della vita dentro una stazione dei carabinieri? Come se io, pensò Rosario, sapendo che stanno per spararmi me ne andassi alle poste a pagare le bollette. Se sai che stai morendo, baci tuo figlio. Scrivi una lettera. Di sicuro non ti metti davanti a un appuntato che non ha mai visto un computer in vita sua per dettargli le generalità, magari dopo un’ora in sala di attesa.

E l’autopsia? Perché non era stata ordinata l’autopsia? In città se ne dicevano di tutti i colori. Che la famiglia non aveva voluto. Che il medico non aveva voluto. Che i magistrati erano contrari anche se dovrebbe essere automatico. Un’assistente dell’avvocato Mendulari aveva detto a Rosario, mentre lui le lavava i capelli: «Se c’è sospetto di omicidio, la famiglia non si può opporre». E tutta la città sospettava che il suicidio fosse finto o provocato o forzato. Tutta la città, salvo i magistrati. Rosario aveva pensato di andare in procura. Ancora non aveva rinunciato. Ma da chi? A Reggio i giudici si mettevano le bombe fra di loro, si minacciavano coi bazooka.
« Reggio è un grande giardino, uno dei luoghi più belli che si possano trovare sulla terra. »
(Edward Lear, Diario di un viaggio a piedi, 1847[1])

FORZA REGGINA SEMPRE E COMUNQUE!
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